Kierkegaard se pregunta si es posible que a los artistas no les tiemble la mano al pintar el suplicio de Cristo. Y responde que si los artistas fueran capaces de hacernos ver algo vivo, situado en el presente de la crucifixión, en vez de mostrarnos algo ya pasado y muerto, nuestro lugar ya no sería el de simples espectadores, sino que -concluye el filósofo danés- estaríamos sobre la cruz, junto a Cristo... Estas palabras, leídas en el artículo de Maurizio Cecchetti que se recoge a continuación, hacen pensar en el sentido y la perspectiva que nos ofrecerá el discutido film de Mel Gibson: véase un dossier sobre The Passion, y otros articulos, ...más. |
Maurizio Cecchetti , Avvenire (Venerdì 28 novembre 2003):
Kierkegaard ha ispirato cineasti come Dreyer o Bergman. Il suo senso del tragico si riflette nel «Pranzo di Babette» e nelle «Onde del destino».
Vi fu una «rinascita» kierkegaardiana che coincise - senza esserne una conseguenza - con la cosiddetta filosofia della crisi.
Kierkegaard, il filosofo del paradosso, della «passione sofferente», del rischio di vivere, tutte definizioni che sono entrate in un certo vocabolario d'uso comune per chi ragiona sulla presenza umana, sull'esistenza e le sue contraddizioni. «Kierkegaard contemporaneo» - il titolo del convegno che si tiene a Verona - esprime un dato storico vero, poiché il filosofo danese fu considerato dagli esistenzialisti del Novecento un loro fratello maggiore, un precursore; tuttavia, il suo pensiero resta per molti ancora «inattuale», poco frequentato rispetto ai più abusati Nietzsche o Heidegger, che dettano comunque un altro corso dell'esistenzialismo.
Esiste, peraltro, una rivista-annuario dedicata agli «studi kierkegaardiani» che è giunta al suo terzo numero, NotaBene, edita da Città Nuova e diretta da Isabella Adinolfi. Da essa sono tratti, per esempio, i due scritti di Erri De Luca e Giuseppe Pontiggia che figurano in questa pagina.
L'ultimo numero di NotaBene è dedicato a un tema insolito per Kierkegaard (anche per ragioni anagrafiche), il cinema. Si tratta, ovviamente, di un «quaderno» retrospettivo che reca vari contributi dedicati ad alcuni film che rivelano una ispirazione kierkegaardiana: si va da Gertrud di Dreyer a Il settimo sigillo di Bergman, da Le onde del destino di Lars von Trier a Il Pranzo di Babette di Gabriel Axel, tratto dal romanzo di Karen Blixen.
Una delle obiezioni che Kierkegaard rivolge all'arte, investe più che mai anche il cinema. L'accusa di essere infedele alla realtà: l'arte edulcora il tragico, poiché si preoccupa troppo delle ragioni del bello. La bellezza, per Kierkegaard, annacqua il pathos, scrive nel suo saggio Marco Fortunato. Com'è possibile, si chiede il filosofo danese, che agli artisti non tremino i polsi mentre dipingono il supplizio di Cristo. L'arte, e il cinema dunque, hanno la colpa di dare allo spettatore qualcosa che è ineluttabilmente passato, morto, nel quale egli non può avere alcun ruolo. Se, infatti, superassimo questo limite e potessimo davanti a un quadro o a un film su Cristo entrare nello spazio-tempo della crocifissione, il nostro posto non sarebbe quello di semplici spettatori, dice Kierkegaard, ma sulla croce accanto a Cristo.
E questo paradosso che torna in Gertrud dove il primo piano, con la tipica forza iconica del cinema di Dreyer, ci presenta nel volto femminile la passione d'amore come una ascesi del dolore di fronte alle conseguenze del libero arbitrio, della scelta, tema tipico kierkegaardiano, che anche in Dreyer - come nota Massimo Iiritano - mette alla prova del tragico l'istituzione matrimoniale, prefigurando uno spazio metafisico che va oltre l'etica stessa e prende a misura di sé l'assoluto. Ed è lo stesso fondale sul quale si staglia il dramma di Bess, la protagonista del film di Lars von Trier, la cui disposizione a comunicare con Dio si risolve nella sua morte sacrificale, il martirio scelto per mettere alla prova la risposta divina nel desiderio della guarigione dell'amato, Jan, che dopo un incidente va lentamente verso la fine. La sua «follia» - nota Giacomo Bonagiuso - si riflette in quella di Abramo, e come egli ebbe indietro Isacco così Bess, sacrificandosi, riceve la guarigione di Jan: è la prova «mistica» che questa comunicazione era possibile, reale, sospesa a una fede. Così, Babette, la cuoca che cade come un meteorite silenzioso su un paesino di fede protestante e col suo celebre pranzo vince le tipiche resistenze incancrenite di una comunità ristretta e conservatrice, chiusa nelle sue paure e ipocrisie. Il suo pranzo è una sorta di riconciliazione con la vita che rifluisce, però, nell'interiorità di ogni singolo personaggio del dramma con effetti diversi, e lo purifica, in fondo, dal proprio puritanesimo aprendolo alla v era fede. Infine, dice Bruno Forte, la riflessione di Bergman sulla morte nel Settimo sigillo è quella di una scommessa kierkegaardiana sulla diversa qualità metafisica che si apre di fronte alla «morte morta» di cui parla san Paolo, che Cornelio Fabro, celebre traduttore e commentatore di Kierkegaard, contrapponeva alla «morte viva» in un suo breve saggio su Pompei. Liberato da ogni ipoteca nichilista, l'esistenzialismo kierkegaardiano diventa una prospettiva religiosa che il cinema interpreta condensando l'analogia fra il flusso dell'immagine e il potenziale di rinascita della vita.
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Publicado por: sharjeel | 16 abril 2004 en 05:50 p.m.