Anche al cinema, la spiritualità — qui però intesa per ora più genericamente — procura spettatori: altro dato che, in un contesto più ampio e sincretista (a volte anche molto ambiguo), sembra abbia ormai convinto sceneggiatori e produttori cinematografici americani; siamo travolti da un diluvio di angeli. L’angelo «umano», forse troppo umano, interpretato da Nicolas Cage in City of Angels ha procurato al film un notevole incasso in patria e fuori. Sono segni di una svolta che, probabilmente, non sarà di breve durata.
Gli anni ’80-’94: il grande vuoto
Da qualche anno stiamo effettivamente uscendo, faticosamente, ma forse anche definitivamente, da un periodo di due-tre decenni in cui la religione, nel cinema per il grande pubblico, era il vero, ultimo tabù [2]. Facciamo nostre alcune considerazioni di Michael Medved, un coraggioso critico americano che ha scritto nel 1992 un libro molto importante, che ha aperto gli occhi a molti dirigenti dell’industria cinematografica, causando un salutare scossone in quell’ambiente [3]. Medved, che di religione è ebreo, praticante, osservava come negli anni d’oro del cinema hollywoodiano, film biblici come Sansone e Dalila, Quo vadis?,Ben Hur avevano avuto non solo uno straordinario successo di pubblico, ma anche un notevole apprezzamento dalla critica (quella «media»), come dimostrano gli undici Oscar toccati a Ben Hur nel 1959 [4]. Ma al di là dei film di argomento biblico o affine, in generale i film di quest’epoca dipingevano la religione e i suoi rappresentanti più tradizionali, i sacerdoti, in una luce di simpatia e affetto: basti pensare a film come Angeli con la faccia sporca (Angels with Dirty Faces, Usa 1938) di Curtiz o a La città dei ragazzi (Norman Taurog, Boys Town, Usa 1938) con Spencer Tracy e al seguito Gli uomini della città dei ragazzi (Norman Taurog, Men of Boys’ Town, Usa 1941). Negli ultimi anni, invece, avveniva che «quando in un film [...] arriva qualcuno con il titolo di “reverendo”, “padre” o “rabbi” prima del nome, si può star sicuri del fatto che salterà fuori che è un corrotto o un pazzo — o probabilmente entrambe le cose» [5].
Medved riporta un lungo elenco di film degli anni ’80 il cui contenuto (che lui descrive) era direttamente offensivo per i cattolici: film che ritraggono preti che hanno relazioni sessuali con suore e magari le uccidono (le suore, invece, uccidono i bambini), o che sono in combutta con la mafia, che uccidono o che tramano all’ombra del Vaticano loschi affari economici [6]. I protestanti non se la cavano meglio: pastori protestanti che digrignano i denti e vogliono convertire usando la violenza, che usano poteri ipnotici per convertire le masse, che seducono giovinette e poi le accusano; fedeli che prendono il potere e schiavizzano e torturano pubblicamente uomini e donne, o che sacrificano i loro figli per affrettare la seconda venuta di Cristo [7].
Per gli ebrei la situazione è leggermente diversa: Medved osserva che sono meno attaccati, probabilmente perché gli ebrei osservanti sono solo il 2,4% della popolazione americana e forse anche per il peso ancora assai forte dell’Olocausto. Qualche frecciatina arriva nei modi in fondo affettuosi di Woody Allen; a volte, invece, l’attacco alla religione ebraica è in un cliché che vale anche per le altre religioni: mettere un suo rappresentante, positivo, contro l’establishment, l’organizzazione religiosa vista come necessariamente dispotica e oppressiva [8].
Ci si potrebbe chiedere come mai questa mancanza di sensibilità si associ a un’incredibile cecità commerciale; la quasi totalità dei film che abbiamo citato sono stati dei disastri al botteghino. Quando Sister Act apparve, nel 1992, era in pratica l’unico film importante di quegli anni che mostrava un atteggiamento aperto e simpatico verso la religione cristiana: è stato uno dei principali successi dell’anno, incassando 140 milioni di dollari solo in patria [9]. Medved lo mette a confronto con Alien 3, che nello stesso anno affondava al botteghino, e in cui l’eroina interpretata da Sigourney Weaver si trova in una colonia spaziale abitata da criminali brutali, volgari e affamati di sesso: a un certo punto uno di loro la informa: «Sai, qui siamo tutti cristiani fondamentalisti» [10].
«Biblisti» psicopatici

A proposito di queste simpatiche pennellate, occorre aggiungere che si è fatto strada in quegli anni una sorta di luogo comune secondo cui i personaggi peggiori, più odiosi e viscidi, di una storia che magari di per sé non ha niente a che vedere con la religione, sono persone che amano citare la Bibbia e spesso non fanno altro. Forse ha iniziato Kubrick (o almeno è stato uno dei primi) con il sergente istruttore di Full Metal Jacket (1987), che fa vari riferimenti alla religione mentre illustra la sua dottrina di violenza [11]; ma gli esempi sono tanti: Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, 1990), Cape Fear, Misery non deve morire (Misery, 1990) [12], Jungle Fever [13]. A queste opere citate da Medved [14] possiamo aggiungerne altre più recenti: pensiamo per esempio a due film per altri aspetti molto interessanti e positivi. Nelle Ali della libertà (The Shawshank Redemption, 1994) esordio nella regia dello sceneggiatore Frank Darabont, il personaggio peggiore, il falso e cinico direttore della prigione, che commette un omicidio a sangue freddo solo per evitare che il protagonista possa veder riconosciuta la sua innocenza e uscire dal carcere, è di nuovo un personaggio che a ogni piè sospinto cita la Sacra Scrittura. Un bel film contro l’apartheid in Sudafrica, sorta di racconto di formazione di un ragazzino inglese, La forza del singolo (The Power of One, 1992, di John G. Avildsen), ricco di valori umani, ha di nuovo i personaggi più odiosi (e solo loro) che citano la Bibbia [15]. In Johnny Mnemonic (1995) di Robert Longo, il personaggio interpretato da Dolph Lundgren è di nuovo un serial killer «religioso», una specie di fanatico santone-predicatore: anche qui l’unico personaggio che abbia in qualche modo a che fare con simboli o temi cristiani [16]. In Codice d’onore (Few Good Men, 1992, di Rob Reiner) riferimenti alla religione vengono solo dal personaggio «peggiore», interpretato da Jack Nicholson.
Ciò che sembra accomunare questi film è, in sintesi, la proposta di un umanesimo chiuso al trascendente — non tanto «laico», quanto esplicitamente a-religioso — come superiore alla fede. Essa sarebbe invece un residuo del passato, una possibile fonte di fanatismo o di fondamentalismo; o almeno, nel migliore dei casi, un paravento di comodo assunto cinicamente per coprire azioni violente e il perseguimento dei propri interessi.
Un mondo in stile Topolino

Accanto all’abbondanza di serial killer religiosi e di biblisti psicopatici [17] trovavamo che nella vita «normale» la religione era come se non esistesse, un po’ come se fossimo nelle storie di Topolino. L’estate del 1991 ha visto sfornare ben tre drammoni a sfondo medico [18], con protagonisti in ospedale per lungo tempo, al confine fra la vita e la morte: «In nessuna di queste circostanze né i personaggi principali, né nessuno dei loro amici o familiari, fa qualsiasi riferimento al potere della preghiera, domanda di vedere un sacerdote o un membro del clero, o in qualsiasi modo invoca il nome di Dio» [19]. Eppure le statistiche dicono che il 78% degli americani prega almeno una volta alla settimana e si suppone che in momenti particolarmente difficili come quelli appena descritti la propensione per la preghiera dovrebbe tendere ad aumentare.
Un ultimo esempio, divertente nel suo genere. Il film Doc Hollywood (1991) di Michael Caton-Jones (protagonista principale Michael J. Fox) racconta la storia di un giovane medico che si sta recando a Hollywood dove sogna di lavorare in una clinica di chirurgia plastica, ma si ferma in un paesino per un guasto all’automobile, scopre che lì c’è molto bisogno di un medico e alla fine decide di fermarvisi in pianta stabile. «Ha trovato casa in un posto per certi aspetti veramente notevole: il paesino del film deve essere l’unica città di qualsiasi dimensione dell’intera South Carolina che non abbia una chiesa al servizio dei suoi cittadini» [20]. Si vedono personaggi e luoghi di tutti i tipi, e molteplici angoli di vita cittadina, ma niente che tocchi la religione. «Questo potrebbe rappresentare il sogno di nirvana cittadino più accarezzato da Hollywood: un paesino con tutte le virtù del Profondo Sud, ma niente dell’imbarazzante e malvista religiosità che viene normalmente associata alla Bible Belt» [21]. Per venire ad altri film recenti, belli e ricchi di valori — proprio per questo ne parliamo — la religione è totalmente assente anche in Goodbye Mr Holland (Mr Holland’s Opus, 1995) di Stephen Herek: sorprende che in un ritratto intimo e profondo della vita di un insegnante che si dedica con impegno a educare i suoi allievi, a comprenderli, a orientarli nella vita, non ci sia il minimo accenno, positivo o negativo, a qualsiasi dimensione religiosa. Cosa analoga possiamo dire di un altro film di grande sensibilità come La stanza di Marvin (Marvin ‘s Room, 1996, di Jerry Zaks).
Medved racconta di essersi divertito per anni a fare una sorta di personale inchiesta con i dirigenti cinematografici hollywoodiani che frequenta abitualmente, chiedendo loro quale pensavano che fosse la media di americani che frequentano una chiesa tutte le settimane. Le risposte ottenute non hanno mai superato il 20% e la risposta più normale era 5% o meno. Quando citava tutte le ricerche che parlavano di una percentuale del 40%, la risposta non era tanto di imbarazzo quanto di incredulità. «Ricordo un producer in particolare che assolutamente rifiutava l’idea che quasi la metà degli americani partecipi a un servizio religioso ogni settimana: “Se tutta quella gente va in chiesa”, sbottava, “come è possibile che io non ne conosca nemmeno uno?”. La risposta, ovviamente, è che il suo tipo di conoscenze è assolutamente non rappresentativo della maggioranza americana. Gli unici cristiani impegnati che lui vede regolarmente sono i predicatori che guarda ogni tanto alla tv. Non sorprende il fatto che l’industria audiovisiva dipinga un ritratto così spesso bizzarro e ricercato della vita religiosa» [22]: conoscono molto di più e molto meglio i telepredicatori esaltati che non i sacerdoti o i pastori che abitano vicino a casa loro.
Questo è un punto molto importante che forse spiega non poche cose di quanto viene proposto alle platee di tutto il mondo. Ci sono state ricerche americane degli anni ’80, oggetto di dibattiti e anche contestazioni, che rivelavano come il gruppo di persone che all’epoca aveva in mano l’industria del cinema, poco più di un centinaio di consulenti di sceneggiatura e dirigenti di case cinematografiche, avesse una visione della vita profondamente diversa — su alcune dimensioni essenziali — da quella della grande maggioranza dei loro concittadini.
Una ricerca pubblicata nel 1986 su questa mediaélite hollywoodiana [23] rilevava, fra l’altro, quanto segue:
- i creatori di programmi sono per il 99% bianchi (contro l’84% della popolazione degli Stati Uniti);
- per il 98% sono di sesso maschile (contro il 49% della popolazione);
- il 63% guadagna oltre 200.000 dollari l’anno e il 25% ha un reddito annuo sopra i 500.000 dollari (il reddito medio di un americano è di circa 24.000 dollari l’anno);
- alla domanda relativa alle proprie credenze religiose, il 44% ha risposto di non averne nessuna (rispetto a solo il 4% degli americani che dichiarano di non avere nessuna religione);
- il 7% degli intervistati frequenta regolarmente una Chiesa (contro il 47% della popolazione nazionale);
- il 97% è favorevole all’aborto (contro il 59% della popolazione);
- il 20% pensa che l’omosessualità sia una cosa negativa (contro il 76% della popolazione nazionale);
- il 49% pensa che l’adulterio sia un male (contro l’85% della popolazione nazionale) [24].
Le cose cambiano
Ma anche qui il peggio sembra ormai passato; come dicevamo, ci sono numerosi segni di rinnovamento; arrivano per lo più da produzioni che non sono delle majors, ma anche lì sembra che ci sia stato un certo rinnovamento di persone e di idee. Il muro di separazione alzatoinquesti ultimi decenni fra religione e cinema popolare — per il cinema europeo d’autore il discorso sarebbe diverso, e molto articolato — non è stato ancora del tutto abbattuto: sembra che però si sia aperta almeno qualche breccia. Quella che di fatto è una delle dimensioni più importanti della vita di miliardi di persone è stata a lungo assente non solo dai vuoti film d’azione (non ci sarebbe da lamentarsene più di tanto), ma anche da quei film umanamente ricchi che vogliono scavare a fondo nell’animo umano, nei misteri della vita e della morte, del destino e del senso dell’esistenza.
Non è un caso che i primi film a squarciare questa cappa siano stati film costruiti su storie vere. A volte, per aprire uno spiraglio in questa lastra di piombo che vorrebbe coprire il cielo, è sufficiente un piccolo accenno: quello che avviene, per esempio, in L’olio di Lorenzo (Lorenzo’s Oil, 1992) di George Miller, in cui ci sono brevissimi, ma chiari accenni alla religiosità dei genitori di Lorenzo. Tutto qui: ma questi elementi danno alla vicenda e ai personaggi un respiro diverso da quello che avrebbero avuto se questi pochi secondi fossero mancati. Pensiamo anche alle produzioni — nate fuori dalle majors — della coppia Jim Sheridan - Terry George [25], riguardanti la recente storia irlandese, che non tacciono la dimensione religiosa dei protagonisti [26]. Di nuovo produzione indipendente, con ottimo successo di pubblico, anche per Dead Man Walking di Tim Robbins, dove la dimensione religiosa è in primo piano e trattata con notevole centratura. Fra i grandi film abbiamo almeno Braveheart di Mel Gibson, che forse abbonda un po’ in sangue e in carneficine, ma che almeno non è reticente sulla fede del protagonista e ha alcuni dialoghi interessanti; qualche timido accenno religioso anche in Independence Day. Anche nei film recenti tratti dai classici della letteratura (Shakespeare, Jane Austen, Charlotte Brontë; l’Anna Karenina diretto da Bernard Rose) la religione torna ad avere una sua presenza discreta [27].
Come si sa, abbondano, invece, nelle produzioni recenti o meno, le apologie del buddismo e di spiritismi vari collegati alle correnti New Age (si pensi per esempio al tema della «forza» nella trilogia di Guerre stellari).
Poiché si tratta di temi assai diffusi, vorremmo almeno accennare — non è questo il luogo per approfondirlo — che ciò che distingue veramente una posizione teistica da forme di sostanziale ateismo che possono essere assai differenti, e addirittura ammantate di spiritualismo, è l’accettazione o meno di un Dio personale, che è distinto dal mondo, conosce il singolo uomo, ed è remuneratore delle sue azioni. Se non si accettano questi dati minimi, posizioni che si dichiarerebbero anche teiste o spiritualiste sono di fatto equivalenti all’ateismo [28] (pensiamo per esempio alle differenti forme di panteismo, oltre che alle varie correnti New Age, a forme di buddismo o di diverse filosofie orientali, ecc.).
Mostrare l’invisibile

Parlare direttamente di Dio in televisione o al cinema non è facile. Si tratta però di un compito affascinante, che è uno dei grandi richiami per i veri artisti: di nuovo vorrei richiamarmi a Tarkovskij, autore che amo molto, per segnalare un vertice forse assoluto nella capacità di «mostrare l’invisibile».
C’è chi dice che invece la televisione sia atea per natura: non riconosce il sacro, non riconosce il confine fra finito e infinito, tende a ridurre tutto ai suoi ritmi, ai suoi formati, alle sue misure. Sembra avere un potere di omogeneizzazione troppo forte perché qualcosa che entra in essa le sfugga, conservi la sua natura «superiore» e non venga tradotto, ridotto, cioè tradito, in un modo come un altro per catturare l’ascolto o in un semplice riempitivo fra i «consigli per gli acquisti». Siamo consci della difficoltà, ma pensiamo che questo rischio, reale, non sia deterministico, non sia una condanna, non sia una necessità: si può vincere la sfida, ma cercando modalità comunicative che trasmettano davvero il senso del sacro, cercando anche nello stile, nel senso di un silenzio, di un’attesa, la possibilità di una comunicazione che non banalizzi ciò di cui parla.
Anche rappresentare i santi, gli uomini che sono profondamente e totalmente di Dio non è facile: il cinema e la televisione non sono abituati a questo compito e spesso sbagliano misura: scadono verso il banale oppure all’opposto costruiscono immagini di esaltati, di uomini profondamente «innaturali». Anche qui potremmo invece citare opere cinematografiche e televisive che hanno vinto la scommessa [29], mentre altre hanno costruito prodotti di semplice buona volontà. Anche qui il compito non è facile: oggi, grazie all’esistenza di documenti filmati dal vero, possiamo vedere come gli uomini e le donne di Dio abbiano un carisma che è insieme molto forte, ma anche profondamente naturale: un «qualcosa» di così profondo e così intimo, così speciale e così normale, che è assai difficile rappresentarlo attraverso finzioni attoriali. Ci accorgiamo di questo quando osserviamo la fortissima «presenza» dal vero di una madre Teresa, o anche la capacità di «bucare lo schermo» di Giovanni Paolo II… Eppure bisogna provare.
Uscire dai generi: la fede nella vita ordinaria
Ma per superare questo strano tabù il grande passo da fare è un altro: è soprattutto quello di «liberare» la fede e la dimensione religiosa dal vincolo drammaturgico, che rischia di trasformarsi in ghetto, del programma esplicitamente religioso, del film sulla vita di un santo, della storia con un prete o una suora (un «rappresentante ufficiale») come protagonista. La vera difficoltà, la vera incapacità della fiction attuale sembra quella di rappresentare la fede, il rapporto con Dio normale che — in misura maggiore o minore — la quasi totalità (fra l’80 e il 90% circa) [30] delle persone normali di questo nostro mondo dichiara di avere.
In termini che sono tanto semiotici quanto produttivi, si tratta di uscire dalla gabbia del genere, di rompere il dilemma fra rappresentazione di una vita senza Dio e fiction a tema prioritariamente religioso. Si tratta di una alternativa «secca» e innaturale che è assai probabilmente frutto di una categorizzazione concettuale e tematica degli sceneggiatori, delle tradizioni drammaturgiche e delle stesse routines produttive. Ma è un muro divisorio che non corrisponde affatto a quella che è la realtà della vita delle persone che popolano questo pianeta.

Per limitarci a pochissimi esempi, ricordiamo, ancora con Medved, che «l’87% dei nostri concittadini non ha mai dubitato dell’esistenza di Dio e il 77% dice che la “preghiera è una parte importante della mia vita quotidiana”; sul piano di valori importanti come quelli familiari, l’80% considera la fedeltà matrimoniale un elemento essenziale per un buon matrimonio, mentre l’85% delle persone dice che risposerebbe di nuovo la stessa persona; [...] il 67% degli americani dichiara di essere “molto soddisfatto” della propria vita familiare» [31].
Il problema è, forse, e molto banalmente, che ci sono stati finora assai pochi sceneggiatori dotati di un po’ di sensibilità per la dimensione religiosa e in grado di trattarla in modo vero e insieme drammaturgicamente corretto e convincente. Abbiamo così, per esempio, le lunghe fiction di «vita vissuta» (serials, soap operas, grandi serie americane, eccetera) — pensiamo per esempio a quelle che hanno più presa sul pubblico giovane (come a suo tempi Happy Days, recentemente Beverly Hills 90210 e oggi Friends) — dove la religione sembra totalmente assente o, se talvolta è presente qualche accenno (un matrimonio in chiesa, per esempio), sembra del tutto ininfluente sulla vita dei personaggi. Ci sono realtà reali di fronte alle quali la fiction che vorrebbe essere più realista, che vuole proporre la vita «così com’è», presenta distorsioni talmente forti [32] che solo per l’abitudine a cui siamo stati condotti da decenni di addomesticamento non avvertiamo questo stridore.
Tutto questo, come è ovvio, non limita la questione solo all’esplicita dimensione religiosa, al rapporto con Dio vero e proprio, ma ha anche notevoli conseguenze sugli stili di vita che si rappresentano e quindi — sempre e necessariamente — si propongono. Ci sono campi, che tutti ben conosciamo, dove la scelta di uno stile di vita è di fatto assai direttamente influenzata dalla dimensione religiosa che si condivide. La televisione e il cinema per il grande pubblico tendono a non riuscire neanche a immaginare scelte che di fatto invece molta gente considera del tutto possibili. Il problema, quindi, non è solo quello di avere una televisione che non parla di Dio, ma anche — e forse soprattutto — il fatto che la televisione tende a parlare di uomini senza Dio.
Ma, lo ripetiamo, qualcosa sta cambiando. Soprattutto in un certo cinema, anche di intrattenimento, ma di intrattenimento intelligente e ricco di valori umani, che si sta aprendo a poco a poco anche alla dimensione religiosa e di riflesso ha una visione più umana anche delle relazioni familiari [33]. Qualche film è stato già citato e vari altri si potrebbero citare, ma mi limito — e così concludo — a uno, recente, che in Usa ha avuto un ottimo successo, nonostante l’assenza di divi di richiamo: si tratta di Deep Impact. Accanto a una serie di subplot molto interessanti e molto ricchi sul piano umano (incentrati su relazioni familiari e problematiche di etica professionale), il film diretto da Mimi Leder ha un momento che ci sembra paradigmatico della stagione che stiamo vivendo. Il presidente degli Stati Uniti, interpretato da Morgan Freeman, sta avvisando la nazione e il mondo del pericolo della cometa che li minaccia. «Mi auguro», sta iniziando, poi si ferma e si corregge in modo molto consapevole e drammaturgicamente molto forte, dicendo più o meno quanto segue: «No, non mi auguro, prego Dio che ci ascolti e che ci liberi da questo pericolo. Il Signore ascolta sempre le preghiere, anche se qualche volta dice no».
Non sarà molto, ma dopo qualche decennio cinematografico di un mondo senza Dio, che quando è buono tende tutt’al più ad assomigliare a Paperopoli, è già qualcosa. Se su questa strada va il cinema, la televisione lo seguirà.
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* da Studi Cattolici n. 457, marzo 1999
[1] Cfr i dati di Milly Buonanno (a cura di), Eurofiction ’97, Eri-Rai, Verifica Qualitativa Programmi Trasmessi, Roma 1998
[2] Per il cinema d’autore il discorso sarebbe diverso: non sono mancate alcune opere notevoli e credo da tutti ben conosciute: pensiamo, per fare un solo nome, ai film di Andrej Tarkovskij
[3]Michael Medved, Hollywoodversus America, Harper Collins, New York 19932
[4]Ibidem, pp. 50-51
[5]Ibidem, p. 52
[6]Sono, per esempio, Uno strano caso di omicidio (The Runner Stumbles, 1979) di Stanley Kramer; Monsignore (Monsignor, 1982) di Frank Perry; Agnese di Dio (Agnes of God, 1985) di Norman Jewison; Catholic boys (Heaven Help Us, 1985) di Michael Dinner; The Penitent (1988) di Cliff Osmond, con Raul Julià; LastRites (1988) di Donald P. Bellisario, con Tom Berenger, che non sono arrivati in Italia; Suore in fuga (Nuns on the Run, 1990) di Jonathan Lynn; Il mio papà è il papa (The Pope Must Die, 1991 ) di Peter Richardson. A questi si aggiungono il duramente anticlericale IlPadrino III di Coppola e gli elementi di scherno antireligioso presenti solo nel remake del 1989 e non nell’originale del 1955 di Non siamo angeli (We’re No Angels). Come al solito, quasi tutti questi film sono stati dei solenni fiaschi. Cfr Michael Medved, Hollywood..., cit., pp. 52-55.
[7]Ecco qualche titolo: China Blue (Crimes of Passion, 1984) di Ken Russell; Grano rosso sangue (Children of the Corn, 1984) di Fritz Kiersch; Poltergeist II (1986) di Brian Gibson; The Vision (1987) di Norman Stone e Salvazion! (1987) di Beth B., che non sono arrivati in Italia; La luce del giorno (Light of Day, 1987) di Paul Schrader; Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale, 1990) di Volker Schlöndorff; Giocando nei campi del Signore (At Play in the Fields of the Lord, 1991) di Hector Babenco; Sacrifìcio fatale (The Rapture, 1991) di Michael Tolkin (cfr ibidem, pp. 55-61).
[8]Alcuni titoli sono Chosen (The Chosen, 1981) di Jeremy Paul Kagan; Nemici, una storia d’amore (Enemies, A Love Story, 1989) di Paul Mazursky; Tango nudo (Naked Tango, 1991) di Leonard Schrader; Homicide (1991) di David Mamet. Gli attacchi, come dicevamo, sono meno frontali: spesso si tratta di mettere in contrapposizione la religione, vista schematicamente e superficialmente come oppressiva, con le esigenze più autentiche dell’animo umano (cfr ibidem, pp. 61-63).
[9]In televisione continua ad andare benissimo:un recente (ennesimo) passaggio in prima serata ha ottenuto circa 8 milioni di spettatori.
[10]Ibidem, p. 19. L’edizione italianaparla di «una specie di fondamentalismo cristiano».
[11]Il giovane protagonista, che è l’eroe del film, è invece un ateo dichiarato.
[12]In questi due ultimi film assassini psicopatici continuano a fare riferimento alla Bibbiae a simbologie religiose. Cfr ibidem, pp. 64-66.
[13]In questo film del 1991 di Spike Lee l’unico che si dichiara apertamente cristiano è il padre del protagonista, che è un pastore protestante in pensione: è un fanatico amaro e intollerante, che arriva a uccidere in un accesso di rabbia l’altro figlio, drogato, e poi orgogliosamente si siede appoggiando la sua pistola su una Bibbia aperta.
[14]Che ne aggiunge altre: cfr ibidem, pp. 64-69.
[15]Lo zio di un amico del ragazzo protagonista, pastore protestante, che sarebbe un personaggio positivo perché offre la propria chiesa per fare lezioni ai neri, invece non si vede nemmeno: si intuisce che esiste e nulla più. Inoltre, pur essendo inglese (e quindi cristiano), per vincere la paura seguente ad alcuni traumi il protagonista bambino fa ricorso a uno stregone africano. Sono piccoli episodi, naturalmente, ma rendono conto di un «clima» molto diffuso.
[16]Fuori da Hollywood c’è il recente Terra e libertà (Land and Freedom, 1995) di Ken Loach, autore di grande sensibilità per i temi sociali, che ha scritto un film forte e commovente, ma totalmente one sided: ha suscitato in Spagna furibonde polemiche per come ha dipinto solo le ragioni dei repubblicani nella dolorosa guerra civile del ’36-’39. Per quanto fa al caso nostro c’è nel film la figura (totalmente di fantasia) spregevole di un sacerdote omicida e mentitore, per di più vigliacco, che avrebbe tradito alcuni anarchici rivelando un segreto comunicatogli in confessione, e per questi motivi viene «esemplarmente» fucilato dai repubblicani. Non una parola (neanche nelle cifre finali sulle vittime della guerra, aggiunte alla versione italiana) sulle decine di migliaia di morti, spesso torturati crudelmente e uccisi in modo bestiale dalle truppe repubblicane. Il film glissa «delicatamente» sulla sorte di alcuni militari prigionieri dei repubblicani, così come sulle devastazioni da loro realizzate, eccetera. Su questo film cfr per esempio José Maria Caparrós Lera, 100 Películas sobre historia contemporánea, Alianza, Madrid 1997.
[17]È chiaro — insistiamo anche a rischio di ripeterci — che il problema non è il singolo film o che ce ne siano pochi a distanza di qualche anno l’uno dall’altro, ma il fatto che queste rappresentazioni diventino quasi strutture di genere, instaurando un legame quasi necessario fra il tema della religiosità e questi tratti devianti, creati del tutto arbitrariamente.
[18]Si tratta di Scelta d’amore (Dying Young) di Joel Schumacher, con Julia Roberts, Un medico, un uomo (The Doctor) di Randa Haines, con William Hurt, e A proposito di Henry (Regarding Henry) di Mike Nichols, con Harrison Ford.
[19]Michael Medved, Hollywood...,cit., p. 73.
[20]Ibidem, p. 74.
[21]Ibidem.
[22]Ibidem, p. 72.
[23]S. Robert Lichter - Stanley Rothman - Linda S. Lichter, The Media Elite, Adler and Adler, Bethesda 1986, cit. da Val E. Limburg, Electronic Media Ethics, cit., pp. 71-73. Questi temi sono stati ripresi e sviluppati in S. Robert Lichter - Linda S. Lichter - Stanley Rothman, Watching America: What Television Tells Us About Our Lives, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1991.
[24]Abbiamo qui, probabilmente, anche qualche spiegazione del motivo per cui normalmente abbiamo un’idea degli Stati Uniti molto falsata, non corrispondente a quello che è da tanti anni il «cuore» di questo grande Paese.
[25]I due si alternano nel firmare la regia di lavori che sceneggiano insieme: per esempio Jim Sheridan, Nel nome del padre (In The Name of the Father, 1993), Terry George, Una scelta d’amore (Some Mother’s Son, 1996): da non confondere con il film Scelta d’amore, citato poco sopra.
[26]Molto bella la figura del padre nel film di Jim Sheridan: il film narra una storia vera.
[27]Il Titanic di Cameron ha due momenti religiosi: uno in cui un membro del clero (sembra protestante) attorniato da molte persone che pregano, recita salmi o comunque brani dalla Bibbia mentre la nave si sta paurosamente inclinando: sono gli ultimi momenti prima della grande strage e hanno un tono apocalittico. L’altro è molto più bello e commovente nel suo pudore: gli orchestrali stanno per salutarsi, ma — senza parole — uno di loro inizia, e tutti seguono armonicamente, una struggente melodia religiosa molto nota, il cui testo notoriamente chiede al Signore di non abbandonarci.
[28] È la tesi di uno dei più grandi filosofi di questo secolo, che ha dedicato un’ampia parte dei suoi studi proprio al problema di Dio e dell’ateismo: Cornelio Fabro. Rimandiamo alle sue varie opere per i necessari approfondimenti.
[29]Fra gli altri Thérèse (1986) di Alain Cavalier, La settima stanza (1995) di Marta Mészàros, o Fratello del nostro Dio (1998) di Krzysztof Zanussi.
[30]Dati recenti sull’Italia per esempio in Pierpaolo Donati - Ivo Colozzi (a cura di), Giovani e generazioni, il Mulino, Bologna 1997.
[31]Michael Medved, Hollywood..., cit., p. 256. Abbiamo omesso di riportare le fonti delle inchieste, che sono citate in appendice dall’autore.
[32]Il problema del rapporto fra la realtàe la sua rappresentazione televisiva e cinematografica che vorrebbe essere «realista» è trattato in Bettetini - Fumagalli, Quel che resta dei media, cit.
[33] Non è il momento e l’occasione di parlarne, ma ci sembra che in questo campo ci sia stata negli ultimi anni un’interessante inversione di tendenza nel cinema americano, che pur non tacendo la possibile presenza di difficoltà e di crisi, mostra la possibilità e l’auspicabilità del loro superamento e sottolinea il bene derivante dall’unione dei coniugi: cfr per esempio Allarme rosso (Crimson Tide), Seven, Virus letale (Outbreak), Jerry Maguire, Air Force One, Ransom, Face/off e vari altri fra i film che abbiamo già citato. In alcuni casi si tratta di piccoli quadri familiari che rimangono sullo sfondo, ma che — anche solo per pochi accenni — danno del matrimonio e della famiglia una visione molto positiva. In altri, la linea narrativa principale è intersecata da uno sviluppo sull’asse delle relazioni familiari: si pensi al caso paradigmatico di IndependenceDay, che si conclude con un matrimonio (il pilota nero e la ballerina) e una riconciliazione fra due separati (il programmatore di computer e l’addetta stampa del Presidente).
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